La bella Italia. Arte e identità delle città capitali (mostra)

Scuderie Juvarriane della Venaria Reale

Inaugurazione 17 marzo 2011

Mostra organizzata in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia (2011) nelle scuderie juvarriane della Reggia di Venaria.

Da Giotto a Donatello, da Michelangelo a Tiziano, trecentosessanta dipinti e sculture di artisti che hanno fatto la storia dell’arte italiana, provenienti da undici centri della cultura preunitaria e prestati da importanti musei italiani e internazionali.

E’ una grande mostra che riunisce nell’ex residenza sabauda opere da Giotto a Donatello, Botticelli, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Correggio Bronzino, Tiziano, Veronese, Tiepolo, Canova per arrivare ad Hayez e Fattori. Per ogni città un diverso curatore - sono coordinati da Antonio Paolucci, mentre la regia dell’allestimento è di Luca Ronconi in collaborazione con Margherita Palli - ha scelto le opere più rappresentative, secondo temi caratterizzanti e in un certo senso identitari. Così al centro della sezione dedicata a Torino troviamo la corte e l’armata, mentre i pezzi esposti hanno le firme tra gli altri di Bernardo Bellotto e Anton van Dyck (di quest’ultimo è esposto “Il Principe Tomaso di Savoia Carignano”), Firenze è la fondatrice della lingua e anche il luogo che conserva le tavole e le tele di Giotto, Masaccio e Botticelli (di cui si possono vedere “La Calunnia” e “Pallade e il centauro”). Roma è simbolo della gloria dell’antichità classica (in mostra sono esposti tra l’altro l’ ”Afrodite accovacciata” dei Musei Vaticani e “Romolo e Remo allattati dalla lupa” di Rubens), Milano coincide con Leonardo da Vinci (appartiene a questa sezione la sua “Testa di Cristo (Per il Cenacolo)”, ma anche con l’Illuminismo e la cultura europea, Venezia con la grande pittura di Tiziano, Veronese e Tiepolo. Non mancano all’appello nemmeno Genova, capitale finanziaria nell’Europa della Controriforma (in mostra il “Ritratto di Andrea Doria nelle vesti di Nettuno” del Bronzino), Bologna con la prestigiosa università (tra gli artisti qui rappresentati, il Correggio e Guido Reni), trovano posto poi Napoli e Palermo, le due capitali del Regno meridionale (per la prima c’è Antonello da Messina con la “Virgo Advocata”, per la seconda, saltando parecchi secoli, “Garibaldi a Palermo” di Giovanni Fattori). Si sono poi aggiunte in seguito Parma e Modena.

Tra i dipinti in mostra, a rappresentare una sorta di Viaggio in Italia prima dell’Italia unita, “Madonna in trono e angeli” di Giotto, il “Trittico di San Giovenale” di Masaccio, il “Leone di San Marco andante” di Carpaccio, il “Ritratto di Pietro Aretino” di Tiziano, la predella della “Pala Baglioni con la Fede” di Raffaello, la “Sibilla” del Guercino e, ancora, il modello originale in gesso della “Religione Cattolica” e il marmo scolpito “Pio VII Chiaramonti” di Canova.

La mostra sarà allestita a Venaria sino a settembre, quindi sarà “prestata” a Palazzo Pitti a Firenze. Un modo per ammortizzare i costi non indifferenti, tre milioni e mezzo di euro finanziati dal Consorzio La Venaria Reale con il contributo straordinario della Compagnia di San Paolo e della Regione (mentre il valore delle opere assicurate assomma a 500 milioni di euro).

Qui una desrizione dettagliata della mostra


Foto / Bozzetti / Video

Le parole di Luca Ronconi

Conversazione tra Luca Ronconi e Carlo Antonelli


Ti era mai successo di progettare l’allestimento di una mostra?
M’era successo. Ne ho fatte tre o quattro, molto più piccole. Ne ho fatte due a Roma alle Scuderie del Quirinale, una era per qualche pezzo di quei guerrieri cinesi (ndr. "Cina, Nascita di un impero", 2006): un carro e sette-otto grandi statue, e poi tantissimi pupazzetti piccoli così! Poi ne ho fatta un’altra - sempre a Roma, alle Scuderie- abbastanza buona, di frammenti di pittura dell’Impero Romano (ndr. "Roma. La pittura di un impero", 2009), molto belli... e poi ne ho fatta un’altra, sempre a Roma a Palazzo Venezia su Sebastiano del Piombo, questa piuttosto grossa (ndr. 2008), le altre cose erano tutte piuttosto piccinine...
Esiste una lunga tradizione di grandi registi di teatro che curano esposizioni, del resto.
Non ti nego anzi che è proprio una questione complicata, perché quasi mai gli storici dell’arte sono d’accordo su una possibile spettacolarizzazione dei contenuti di una mostra. D’altra parte la committenza, al contrario, ci tiene. Dipende cosa si chiede. Ci sono mostre che hanno un carattere soprattutto storico, altre che invece hanno un carattere antologico, altre invece sono grandi personali di artisti defunti. Quindi, dovendo fare questa mostra, e avendo avuto proprio un mandato in questa direzione, da parte di chi ha fatto la commissione...
Ovvero?
Beh, la Reggia di Venaria. Addirittura si è messo “Giardino d’inverno” nel titolo, ossia “Unità d’Italia nel Giardino d’inverno di Venaria”. Mi hanno chiesto di fare una cosa che avesse un impatto forte. E faceva proprio parte dell’incarico il rispetto dei luoghi. Non si doveva trasformare tutto in una quadreria. E poi il tema era quello dell’Unità d’Italia, un tema da prendere con le pinze. Sì, ah, e poi: una mostra che si fermava al momento della storia dell’unificazione...Eh, già. Quindi la mostra cosa poteva essere? A parte il fatto che, questo si può dire, la scelta delle opere è stata molto laboriosa per chi l’ha fatta. Questi erano gli input, che andavano di città in città. Facciamo un esempio. Firenze: la nascita della lingua italiana, l’invenzione del Rinascimento, i Medici, la città, una prima edizione della Divina Commedia, tanto per dirti... Quindi era una mostra che si proponeva di illustrare parecchio scibile. Mi sembra che le opere fossero, nel progetto iniziale, una quantità abnorme. Adesso si sono ridotte a 350, e non è poco.
Allora, andiamo per passi, così non ci perdiamo niente. Il primo passo è: la Reggia di Venaria ti chiede di mettere in scena questa mostra. Che ha un curatore o ha più curatori?
Ha un curatore, il prof. Antonio Paolucci, che ha coordinato i vari curatori locali.
Quindi, la Reggia di Venaria e il Comitato per i 150 anni dell’Unita d’Italia hanno nominato un coordinatore, questo coordinatore ha attivato degli agenti locali, in maniera conradiana i quali hanno portato a casa il loro compito, ognuno secondo la propria interpretazione.
Chiaro, poi il problema era quello di dare un’unità a tutto quanto.
Ti hanno dato il luogo... quindi il tempo. Il tempo per questa drammaturgia è fissato, sono i mesi di apertura della mostra, chiaramente. Quindi la prima cosa che hai pensato è stata: la posso fare o non la posso fare? Cosa posso aggiungere?
Ma anche: come posso leggere la richiesta? Non la penso come uno strumento che possa “aggiungere”, francamente. La penso come una lettura della commissione che mi hanno dato. Allora sono partito dall’idea di non fare un quadreria, ossia una pannellatura.
Conoscevi il luogo?
Si, lo conoscevo benissimo. Non come è adesso, ma com’era un 25 anni fa. Perché quando ero direttore dello Stabile di Torino, questo luogo era in uno stato piranesiano meraviglioso, impolverato.. Ero direttore del teatro e quindi della scuola del teatro, e volevo farci dentro uno spettacolo con gli allievi della scuola. Poi lo spettacolo si è fatto, ma io ero già scappato via da Torino. Ho cominciato le prove, poi l’ha terminato il mio vice... ed era “I soldati” di Lenz. Volevo farlo nello stesso luogo di questa mostra. Poi non si è potuto fare qui, e l’ho fatto in una sala più piccola di Venaria. I posti davvero non erano agibili, non si sentiva un accidente... Però sì, li ho visitati, e l’idea di fare uno spettacolo mi è rimasta in testa. Eh sì, le piante che crescevano nei cortili, le edere... Era proprio “La Bella Addormentata nel Bosco”!
Che Italia suggeriva, quella Venaria? O che Piemonte?
C’è rimasto qualcosa di quella suggestione di allora, in questa mostra. Per esempio tutte le didascalie della mostra sono perdipiù scritte a mano. Questo perché mi fece una grande impressione da ragazzo una visita a Villa Adriana a Tivoli, che mi ricordo ancora benissimo. C’era una specie di corridoio, che era come interrato per metà. Le volte e le pareti erano piene di scritte del ‘700, che poi mano a mano che scendevi diventavano più contemporanee. Mi ricordo delle scritte bellissime. Mi viene in mente per esempio un fallo gigantesco disegnato con la sanguigna, la data millesettecento e rotti, con sotto scritto “Pour le premier allemand qui passerà d’ici”. E poi disegni sporchi, delle memorie, i soliti cuori, Angelica e Medoro uniti eccetera... Ecco, da qui è venuta l’idea di non fare le scritte grafiche, ma a mano. E le abbiamo fatte tutte così.
Eri ritornato a vedere Venaria prima della ristrutturazione e della riapertura al pubblico?
Beh, la ristrutturazione è molto ben fatta. E’ di nuovo agibile, certo. Allora c’era un certo tipo di suggestione, ora è molto funzionale.
Quindi il primo istinto è stato “faccio una cosa a Venaria che avevo lasciato in sospeso”.
Esatto. Senza fare una quadreria, né una mostra tradizionale. D’altra parte questo mi è sembrato accettabile, anche perché la mostra in sé è una mostra tematica, non è una retrospettiva dedicata alla pura storia dell’arte. È una serie, un grande numero di accenti, sulle caratteristiche delle varie città che sono state capitali d’Italia.
La prima paura non era quella di fare, diciamo, un sussidiario? Un miniuniverso didascalico, pedagogico.
No, non avevo questa paura. Ho fatto semplicemente il primo giorno un’ipotesi su due direzioni: che non sarebbe stato mica male pensare anche alla natura oltre che alla storia, che quindi l’aranciera era un luogo d’elezione per la conservazione della natura, e che si trattava di una mostra storica e quindi un’idea di tempo era appropriata. Naturalmente nella mostra non potevo rappresentare il tempo storico, allora ho pensato che potesse essere la storia di un anno: comincia con la primavera e finisce con l’inverno. Queste le due direzioni di fondo. Innanzitutto mi sembrava giusto dare un’idea di esposizione “en plein soleil”, ossia simile alla tipologia delle aranciere. Perché se no si sarebbero dovute tappare le finestre! Questo so che ha creato delle perplessità, perché dicevano che quasi tutti i quadri sono fatti per essere guardati dentro un interno.. La scelta operata in ogni caso è stata questa. L’accordo con Margherita Palli, l’architetto-scenografa con la quale collaboro da sempre, è stato questo: mantenere il più possibile scoperta la struttura dell’aranciera. Vedi, le opere sono talmente tante che non potevamo evitare di fare una specie di labirinto. Quindi abbiamo pensato, invece di fare una pannellatura secca, di costruire una specie di luogo della memoria. D’altra parte si tratta un’unità ancora in costruzione. E poi degli specchi, ci interessava l’idea che le opere si specchiassero. Da qui il pavimento di erba artificiale, e di foglie vere. L’erba invece no, perché l’umidità la avrebbe mandata in malora.
E le foglie? Che succederà dopo l’assalto dei milioni di visitatori previsti?
Beh, ogni tanto le cambieremo, e dopo un po’ le sostituiremo con delle foglie finte. Quindi questa è l’impressione che ti dà la mostra, che tutto quanto si svolga a luce piena, e non invece con la struttura classica museale, il quadro illuminato singolarmente, eccetera eccetera. Anche perché, come dire, in qualche modo si invita il visitatore a rifare proprio un pezzo di Grand Tour, cominciando proprio dalle antichità romane: l’Impero Romano, i frammenti della colonna traiana. Poi c’è Piranesi, poi ci sono i Papi... Quindi è una mostra di storia vera, non solamente di storia dell’arte. Spesso le opere non hanno rapporto tra di loro, sono unite da un tema storico, oppure da altri temi... chessò, l’Illuminismo a Milano.
Hai notato dell’orgoglio, nel senso positivo del termine, da parte delle città, nell’offrire i propri gioielli di famiglia?
Mah, io ho parlato solo col Professor Paolucci, non ho avuto a che fare con i singoli! Eh, tra di loro una certa competizione forse ci sarà stata. Chi ha più spazio, chi ha meno spazio, chi viene prima, chi viene dopo, perché io nell’inverno e non nella primavera.
Non potrai evitare dietrologie, lo sai, sì?
Non sono io che ho deciso la sequenza. E’ ovvio che si comincia con Roma, ma poi per le altre città è stato un accordo tra i curatori. La mostra si chiama Unità d’Italia, e il problema era dare –nelle differenze, che sono appunto gli oggetti presentati – una specie non dico di uniformità, ma una cosa unitaria. Facciamo a Roma la pastasciutta? A Firenze la ribollita? A Venezia il baccalà? a Bologna i tortellini, eccetera eccetera? Alla fine si sarebbe finiti per fare una specie di fiera gastronomica! Artisticamente non mi sembra che fosse quello il punto, e per fortuna. E non sarebbe neanche tanto giusto: l’Illuminismo a Milano sì, però a Venezia no! Ecco, è giusto? O la Modernità: a Milano sì, ma a Roma invece no... E perché? Io avrei voluto leggere ognuno di quei temi come un elemento di unità, non come elemento di esclusione di alcune città nei confronti delle altre.
Ma qual è l’elemento di tempo, a parte quello storico, che è ovvio?
Come dire, il rapporto tra storia e tempo naturale. La storia lascia dei documenti ed è quasi sempre un’interpretazione.
Togli pure il quasi sempre.
Eh, sono grandi opere, ma anche testimonianze di un’invenzione... se dico così mi ammazzano... Ma un conto è la storia, un altro sono i depositi che la storia lascia, sono un’altra cosa, fortunatamente.
Le tracce, gli indizi, le spie, secondo la fortunata teoria di Carlo Ginzburg (ndr. Miti, emblemi e spie. Morfologia e storia, Einaudi, 2000)
… che in qualche modo ce la fanno sempre a superare il tempo.
A che natura stavi pensando? A quelle colline e a quei boschi che ne avevano viste di ogni? Invasori, carestie... Al punto di vista vegetale che è più stabile di quello dell’uomo?
No, io pensavo soprattutto a un rapporto possibile tra ciò che chiamiamo storia e la nostra esperienza limitata del tempo fisico. Per provare a rappresentarla devi fare nel modo più ovvio, nel modo più semplice, lapalissiano.
Quante tipologie di spettacoli avevi fatto che implicassero le strabenedette quattro stagioni?
Nessuna... pensa, no. Uno spettacolo no... Quando ho fatto ad esempio la prima volta “Orestea” in Italia (ndr. Biennale di Venezia, 1972), anche lì, partendo dalla inidoneità del luogo per fare una tragedia greca. Nell’ ”Orestea”, fatta da noi a nostro caro prezzo, perché ci abbiamo messo un sacco di soldi, ho inventato il teatro dove stava il pubblico e dove stava lo spettacolo, invece al Burgtheater di Vienna (ndr. nel 1976) dovevo farla sul palcoscenico. Ho immaginato un viaggio dell’opera a partire da un tempo che noi non conosciamo neanche storicamente, l’origine, diciamo. Poi certe parti invece le avevamo immaginate nel momento di rapporto fra quell’opera e il suo pubblico, nel V secolo avanti Cristo. E alcune altre nel momento legato al recupero medievale proprio attraverso la copia, la copia del manoscritto intendo. Quindi avevo immaginato il viaggio di un’opera nel tempo, passando da tempi sconosciuti, perché morti, a tempi sconosciuti, perché ancora non esistevano. In quel caso questo era possibile, perché in qualche modo il testo governava l’oggetto del trasferimento.
Ma anche il tempo della rappresentazione, che qui, mi ripeto, è poco chiaro.
Non c’è. Per questo dico che, se in questo c’era un qualche senso, allora bisognava presentarlo nel modo più semplice e magari anche più scolastico.
Beh, si tratta una mostra scolastica, nel senso pieno del termine.
Eh, di fatto sì, è anche una mostra didascalica. Quello che volevo dire è che non mi andava di fare una mostra pomposamente celebrativa, ecco.
Perché non celebrativa? Perché pensi che ci sia poco da festeggiare?
Non sempre va dichiarato ciò che molti sentono... quindi non lo dichiaro! Sappiamo tutti quanti che è un’unità da completare! Questo non vuol dire che non è ancora stata fatta, non vuol dire che bisognerebbe distruggerla, queste sono affermazioni altrui, ma mi sembra ovvio dire che andrebbe completata. Mi sembrava comunque che non si dovesse fare una mostra retorica, una mostra celebrativa, che non si dovesse fare una cosa necessariamente austera. Ma che al contrario dovesse contenere un elemento ludico.
Dove l’hai messo?
Per esempio già le foglie e lo sforzo di non omologare tutti quanti gli oggetti. Mi sembrava che questo non-approccio tradizionale dovesse essere il carattere peculiare di questa mostra. Mi avevano anche suggerito di metterci dei commenti sonori. Ma anche lì, che ci mettiamo? Musiche regionali? Direi di no. Per questo abbiamo messo in alcune zone di passaggio dei pezzi registrati, letture tratte dai resoconti dei Grand Tour in Italia. Proprio ricorrendo all’opinione degli stranieri, dei viaggiatori. Non so, le impressioni di un ambasciatore francese del ‘400, o i ricordi di Madame de Stael, cose così. In modo da creare un ambiente tra il nostalgico e l’ironico, che poi, voglio dire, è lo stesso spirito con cui un visitatore viene a vedere questa mostra. Anche se poi ci trovi il Velasquez, là trovi il Leonardo.
Buttati lì in mezzo al resto, come accade sulle pareti di una casa nobiliare.
Sì, un po’ di spezzatura all’italiana... che non è certo menefreghismo, ma abbiamo talmente tante cose belle messe nella teca.. Mi sembrava accettabile una cosa di questo genere, in cui il capolavoro assoluto sta vicino al documento, per vedere se si trovano tra loro connessioni inedite.
Un’attitudine nonchalante cui del resto ci ha avvezzato lo stesso paesaggio italiano, il modo con cui è per noi familiare la presenza dell’uomo e della storia dentro il paesaggio naturale, come ben descrisse anni fa Eugenio Turri (ndr. Semiologia del paesaggio italiano, Longanesi, 1990).
Se vuoi.. Diciamo che la mostra costituisce un tramite per accostarsi alle opere con disinvoltura, con leggerezza, ma non il tipo di leggerezza accostabile al mancare di rispetto, anzi.
Dicevamo artificio e natura. Continuo a non capire bene a cosa alludono le quattro stagioni.
La mostra comincia con l’inizio della primavera e finisce con l’inverno, ma poteva tranquillamente essere viceversa. E’ un ciclo, puro e semplice.
La natura vera e propria dov’è, quindi? Abbiamo detto dell’aranciera, della luce en plein soleil? Il resto è sintetico.
E’ tutto artificio. Il pavimento a specchio evoca la natura, ma non è naturalmente la natura vera, è artificio e basta.
Non hai timore di un accusa di kitsch? Gli specchi, le foglie finte… si rischia in tal senso, o no?
Paura di una cosa kitsch? Mah...
Hai sempre dichiarato: la scenografia è inganno. Anche questa mostra stessa è un inganno, in un certo senso.
Vogliamo veramente dirlo così?
Nel senso di “evento”, di accadimento che vive solo qualche mese e poi muore, con gli oggetti e le opere che ritornano nei loro luoghi di appartenenza.
Io non credo che esiste qualcosa che è kitsch in sé. Dipende dalla circostanza, dall’occasione. Secondo me una cosa fatta senza pretese dovrebbe aggirare il rischio del kitsch. Kitsch e’ quando una cosa vuol sembrare quello che non è. Cafona è la disonestà di far sembrare impegnativo ciò che è triviale. Non mi pare questo il caso.
Dov’è lo zeitgeist dentro la mostra? Nei tuoi spettacoli tu sai sempre dove metterlo, dove farlo vivere, hai sempre detto. In questo caso?
Il tempo presente è tematicamente escluso da questa mostra. Perché si finisce con l’Unità d’Italia, si conclude lì. Sarebbe, quello sì, pretenzioso inserire segni del tempo presente dettati da uno sguardo contemporaneo. Del nostro presente non se ne sente neanche la puzza. La mostra finisce 150 anni fa. Quindi se volessimo mettere il presente dovremmo mettere quello di ieri e dell’altro ieri, il presente di mia nonna, che era il 1875, e via così.
Come scrisse Giulio Bollati (ndr. L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, 1983), si può dire che questa mostra è anche una celebrazione di quella strana corsa nostrana alla modernità che non verrà mai completata mai? Non solo l’unità, la nazione, ma persino la nostra idea stessa di moderno: tutte incomplete, ibride, spurie, bastarde.
D’altra parte ciò è così connaturato con la nostra natura più profonda: quel cercare di mettersi sempre al passo col moderno, ma pure rimanendo i più legati di tutti alle origini.
Specialmente al livello locale. Stiamo parlando di storia di città, del resto.
Perbacco, ciò non significa essere passatisti, ma di cercare collocare i segni del contemporaneo dove sono richiesti. Non mi sembrava fossero richiesti in questa circostanza, non mi sembrava giusto metterci segni che avessero un carattere assolutista.
Ti sei fatto un’idea, dovendo (di)spiegare questo tema, di cosa alla fine potrebbe essere quella strana cosa che alcuni chiamano orgoglio nazionale? L’amor di patria, il comune sentire nazionale.. in relazione a queste forti culture locali? Che cosa è? Sicuramente non si tratta una forma granitica, e forse nemmeno solida.
Già, l’Unità d’Italia è un passepartout o un concetto reale? Questa domanda, credo, se la pone o se la dovrebbe porre ciascun italiano. Il rapporto è di interrogazione. E’ stata un’idea molto più che un sentimento?
Fu un’idea, astratta, figlia del culto post-illuminista della ragione?
Mi pare di si, francamente. Io mi sono sempre sentito profondamente italiano, mi ci riconosco dentro. Sarà il motivo per cui non ho mai voluto studiare l’inglese.. che ne so.. I francesi sanno benissimo cosa è la Francia. Noi non lo sappiamo mica, cos’è l’Italia. Sono memorie a pezzi, a pezzi, a pezzi...
Questa modernità incompiuta, non avendo spazzato- trasformandolo in aria via tutto quello che era solido, come scriveva Marx e Engels nel “Manifesto Comunista” (ndr anche Marshall Barman, All that is solid melts to air. The experience of modernity, Berkeley, 1982)- non è riuscita da noi a liquefare tutta la storia, tutta la tradizione. Coltivando questo sentimento spurio, abbiamo fatto, incredibilmente, un perfetto giro a 360 gradi. Non abbiamo spazzato via tutto, e ci siamo ritrovati ad essere maggiormente preparati ad una contemporaneità che meglio si adatta a porzioni geografiche sparse, a molecole spaziali dotate di forte cultura locale ma permeabili dai flussi globali, piuttosto che al territorio di una nazione intera, ormai superato.. Un’idea più gassosa dell’identità nazionale, che forse oggi è anche più gestibile.
Ci può essere un’unità frammentaria, anche se sembra paradossale.
Questo ha a che vedere con una familiarità millenaria con il reperto, il frammento, la rovina, con la colonna spezzata, con il monumento parzialmente distrutto, o che ha subito aggiustamenti successivi di epoca in epoca, anch’esso spurio, ibridato quindi, non ossessionato dal principio di non-contraddizione.
Qui lo vedi anche solo in un aspetto centrale della mostra, che fa di tutto per essere laica, ma non riesce ad evitare che lo zampino di Santa Madre guizzi fuori ovunque, onnipresente. Questo fa parte di noi. Nell’antica Roma ci sono sia Cesare che Innocenzo X. I vantaggi della complementarietà sono incommensurabili. Nella mia vita, nel mio lavoro sono sempre stato coerente, ma quelli son fatti miei. In tutto il resto, poter essere anche altro, sapere di potermi muovere tra punti e non seguendo una linea dritta è così meglio, è tanto meglio…È molto italiano anche questo, no?