Don Carlo

Musica:   Giuseppe Verdi

Personaggi - Interpreti:
Filippo II - Nicolai Ghiaurov
Il grande Inquisitore - Evghenij Nesterenko
Un frate - Luigi Roni
Don Carlo - Josè Carreras
Elisabetta di Valois - Mirella Freni
La principessa Eboli - Elena Obrastzova
Tebaldo - Stefania Malagù
Voce dal cielo - Francesca Caldara
Il Conte di Lerma - Gianfranco Manganotti
Un araldo reale - Antonio Savastano
Corifeo - Luigi De Corato


Maestro direttore e concertatore:   Claudio Abbado
Maestro del coro:   Romano Gandolfi

Scene e costumi:   Luciano Damiani


Allestimento:   Teatro alla Scala di Milano


Prima rappresentazione
Teatro alla Scala, Milano
07 dicembre 1977

Foto / Bozzetti / Video

Le parole di Luca Ronconi

Ronconi – Gli eretici bruciano in un gran rogo di manichini


Un’opera musicalmente straordinaria […], in cui la cosa che ti colpisce di più sono tutti questi personaggi pubblici colti nei loro conflitti privati, il che è un taglio molto ottocentesco. Così ho cercato di isolare i due piani, il piano di pompa, […] il regno, il potere, l’ambizione, da quello di effusione e riflessione sentimentale, l’amore, l’amicizia, il rovello intimo di Filippo, la gelosia di Eboli. […] l’opera non si presta a un’interpretazione a stratificazioni come la Walkiria o il Sigfrido. Abbiamo cercato di dare […] un’ambientazione unica […] come un passaggio continuo di immagini attraverso questa inquadratura argentea fissa, quasi il flusso della vita visto dal chiostro finale, che è il luogo di annientamento di tutte le pompe terrene. Il tentativo, poi, è sempre quello di conciliare il discorso intimo, musicale dei personaggi con la magniloquenza delle situazioni da grand opéra, per quanto […] limitata […] a pochi momenti. […] C’è un andamento legato alla presenza della morte, c’è una specie di continuo riflusso di elementi ispirati all’iconografia della Controriforma, ma non è nemmeno esatto, in fondo, parlare di Controriforma […] in questa interpretazione, quanto, ripeto, […] di annientamento delle vanità del mondo. […] Il tono dell’opera è storico, ma il discorso non è storico: va portato là, su quella che è la vera ricchezza musicale dello spartito, […] il rilievo dei personaggi. […] bisogna affrontare ciò che ci dice proprio il discorso musicale, in cui il padre da tiranno diventa un personaggio roso dall’angoscia, l’amico vive una sua ambiguità, la moglie virtuosa conosce il dramma di un amore senza speranza… Ma è difficile spiegarlo. Non prenderlo alla lettera. […] è un spettacolo, in fondo, di taglio tradizionale. Soltanto che tutte le cose, anziché essere ordinate all’interno di una scenografia, appaiono in una successione diversa, in sintonia con la musica, […] il senso, l’atmosfera sono quelli di una grande cerimonia durante la quale tutti i valori […] vengono progressivamente disfatti e annullati…
Intervista di Pier Maria Paoletti
«Il Giorno»
16 novembre 1977

Un grande romanzo storico


Questo Don Carlo in cinque atti e con tutti i tagli riaperti ad eccezione delle danze, non tende, a differenza di altre famose edizioni, a comporsi come una specie di affresco storico. […] Escludo il riferimento all’«affresco» poiché mi pare che Don Carlo, superati gli schemi del melodramma e raggiunta un’indiscutibile consistenza drammatica nel «tutto tondo» dei personaggi, conservi un tanto di retorico e sommario nella tenuta del discorso storico-politico al quale, pure, aspira. Perfino la storia dei manuali […] ha più grinta di quella descritta dai librettisti […]. È la strapotenza musicale che trasforma in vive creature private questi retori della storia. […] Di storico, mi pare, qui non c’è altro che un bel romanzo, in obbedienza alle regole ottocentesche. Ma il romanzo è veramente grande ed è quindi su questo schema da romanzo che nasce, per lo spettacolo, un andamento più narrativo che descrittivo, un continuo e fluido svolgimento. Che cosa propone questo svolgimento? […] un progressivo annientamento di sentimenti e di valori. […] la tomba di Carlo V […] inquadra dunque la narrazione ed è da qui che l’intera vicenda va osservata. […] Pur con l’inevatibile distacco con cui si possono osservare certi temi, la regìa, tutta scandita sulla presenza della morte, è quindi impostata sul progressivo riconoscimento della nullità dei valori attribuiti, secondo la convenzione, a situazioni e sentimenti. Questi personaggi pubblici, colti soprattutto durante i loro conflitti privati, agiscono su un doppio piano, il primo di pompa retorica e vanità delle cose mondane; l’altro, quello delle loro passioni e lacerazioni umane.
«La Repubblica week end»
25 novembre 1977

«Don Carlos» calato nell’argento in una scenografia monumentale


Ci sarà un impianto fisso […]; la scena base tira sull’argento […] è un colore che si adatta al tono spagnolo dell’opera. […] È una regìa […] fatta sul testo e sulla musica, non sulle altre regìe. […] La musica pur innestandosi nelle situazioni abbastanza schematiche del testo, lo porta in una dimensione diversa.
E come è stato risolto il problema della diversa ambientazione delle varie scene […]?
Con il mutare dei colori […], delle luci, e con elementi che entrano i scena apportati da attrezzisti in costume, dalle comparse. […] Non credo che il compito di un regista sia quello di aderire a questo o a quel motivo dell’opera: ma mantenere un certo distacco, una sorta di obiettività, anche se usa forme stilistiche inconsuete. I problemi che agitano questi personaggi non hanno nulla a che vedere con quelli che io posso sentire. […] Se su un punto non ci si trova tutti consenzienti, si rinuncia.
Intervista di a.f.
«Il Giornale»
29 novembre 1977

Poco Verdi e molti scheletri


So bene quali sono le carenze di spettacoli come il Don Carlo […], dato che i cantanti continuano a recitare esattamente come si faceva un tempo. D’altra parte è impossibile portare i cantanti su un nuovo terreno quando sono gli stessi teatri a non far nulla in questo senso. Oltretutto se accade che il protagonista di un’opera arriva in teatro due giorni prima dello spettacolo, com’è accaduto stavolta, è chiaro che io non posso colmare certe carenze. […] quanto al giudizio della critica posso dire che il presupposto da cui parte un critico è se lo spettacolo “disturba” o non “disturba” la musica. Ma siccome non esistono codici su tale argomento non vedo come si possa giudicare con tanta certezza l’operato di un regista.
«Tv Radiocorriere»
7-13 gennaio 1978

Rassegna Stampa

Sopra (troppe) tombe un grandissimo Verdi

In quell'ambiente si dipana, da sinistra verso destra, come in una lettura involuta, la vicenda politico-coniugale di Filippo II, di sua moglie Elisabetta e dell'infante Carlo. Finiranno tutti schiacciati dalle macchine controriformistiche: Carlo cacciato da un enorme crocifisso portato a braccio verso il sacello di Carlo V che provvidenzialmente si apre, Elisabetta tra due carri allegorici ricchi di mortifere insegne, Filippo tra le braccia stritolatrici dell'Inquisitore. Inutile dire che l'idea di Luca Ronconi e Luciano Damiani è articolatissima e conosce momenti di fascinosi lutti: come quando appare una barca carica di morti, o quando carlo, incatenato alla statua funebre di Carlo V, assiste impotente all'agonia di Rodrigo, o quando il colpo fatale per Rodrigo viene sparato non da un archibugere ma da un carro allegorico pieno di cattolicissime insiegne.
Michelangelo Zurletti
«La Repubblica»
9 dicembre 1977

Don Carlo nel gioco delle vanità

In Don Carlo non è l'opera che vive nelle temperie del primo amore e Ronconi con un meccanismo di sottrazione affascianante ha sciolto l'incanto di quella malinconia amorosa che pervade il primo atto e di quella Francia ammaliante di neve riuscendo anche in questo caso a trovare la pertinenza dell'immagine al fatto musicale. La resa dello spettacolo ha avuto però un'impennata mirabile quando si sono sentiti gli accenti del Don Carlo con la situazione propria del Don Carlo. Scomparsa la suggestione amorosa del primo atto è venuta in primo piano la vera dominante di tutta l'opera: l'ombreggiatura intensa oppressiva e sconfinata di questi personaggi che l'esecuzione ha scolpito con un segno indimenticabile. Tutto diventa vero con questa direzione e regia: il senso della vanità e l'annullamento delle ambizioni. Tutti qui restano alla fine senza ambizioni, desideri, speranze, senza orgogli. […] In ogni momento si è sentito il grande regista che suona la tastiera dei fatti visivi, riesce a sviluppare l'azione secondo una condotta degli eventi totalmente interpretante.
Duilio Courir
«Corriere della Sera»
9 dicembre 1977

«Don Carlo» da vedere e ascoltare

Questo fosco Don Carlo costruito da Luciano Damiani e Luca Ronconi, tenendo d'occhio le pitture di Goya e l'atmosfera dell'Escuriale, vive tra i teschi che, come una decorazione macabra e mondana bordano carri e baldacchini. Al centro stà l'auto da fé, col suo bravo rogo degli eretici incappucciati: una festa, uno spettacolo “istruttivo” per i dissenzienti di tutti i tempi. […] E' tutto da vedere e da ascoltare: spagnolesco e verdiano. C'è il fato della “grande opera” di marca francese, l'anticlericalismo di Verdi e di tutti gli uomini del Risorgimento, la violenza del dramma romantico.
Rubens Tedeschi
«L'Unità»
8 dicembre 1977

Un «Don Carlo» che scatena le passioni

Ronconi e Damiani risolvono il problema della realizzazione scenica esaltando assieme l'aspetto spettacolare e quello drammatico-politico. Dopo il prologo tra le nevi della foresta di Fontainebleau, essi fissano il dramma nell'Escurial, tra i bronzi delle tombe dei re che campeggiano al lati e al centro della scena. Tra i bronzi funerari si stende così un grande spazio vuoto da riempire […] con la processionedel carnevale di morte. […] Questa Spagna tragica e barocca è esattamente quella che esigevano Verdi e l'Opéra di Parigi.
Rubens Tedeschi
«L'Unità»
9 dicembre 1977

Barocchi e profumi

Un iperbolico Don Carlo alla Scala, carnevale di Viareggio di madornali carri allegorici con emblemi di potere catto-spagnolesco […].
Alberto Arbasino
«L'Espresso»
10 novembre 1986

Un «Don Carlos» eccellente che non è riuscito a sedurre

Ronconi vede il significato ultimo del Don Carlos nella denuncia della vanità e delle disgregazioni di ogni valore umano: sentimentale e civile, privato e pubblico […]. Il regista non intende dunqu concedere spazio acuno alla dialettica della coscienza liberal-borghese, che è anche quella verdiana: vale a dire la dialettica tra i due poli opposti e complementari del cinismo e del moralismo […]: il cupio dissolvi del regista, che si traduce nell’immagine di un teschio su ogni oggetto portato in scena, pialla il dramma delle sofferenze, lo universalizza in senso nichilista, per togliere la carica dialogica che è tipica dell’universo verdiano, depaupera i personaggi della dovizia caratteriale, della mobilità di coscienza e li fa regredire ad una sorta di elementarietà etica, tipica dei caratteri precedenti del Don Carlos. Tanto più è risultato inutile e contraddittorio negare il processo dialettico suddetto, per riproprlo, banalizzandolo, a livello di espediente scenico. Infatti, lungo tutto l’arco dell’opera, hanno agito su un doppio piano: in avanscena, quando trattavano eventi privati, sul fondo – ove sfilavano come su rotaie fra i frati, il popolo, le guardie in ininterrotta processione – quando erano coinvolti da problemi ufficiali.
Enrico Cavallotti
«Il Tempo»
8 dicembre 1977

Chi rende a me quest’opera?

Quanto alla messinscena, a parte l’atto di Fontainebleau collocato nel vuoto, si fonda su di un contrappunto, per buona parte sghembo, fra un’azione melodrammatica affatto tradizionale e un controcanto mimico e scenografico d’intenti puramente simbolistici. La scena è spartita in due piani: su quello anteriore, più basso, che con pochi elementi evoca la cappella sepolcrale di Carlo V, si svolge l’azione, su quello posteriore filano quasi ininterrottamente carri paracarnevaleschi, carichi di spagnolissimi emblemi di morte e di festa, d’inferno e paradiso […] dati come scorrimento di ufficiale “storia”, il più spesso considerata in sé, qualche volta in rapporto diretto con il privato dramma dell’avanscena. Peccato che il gioco duri troppo […]. E peccato che la regìa abbia quasi del tutto abbandonato gl’interpreti principali a se stessi. Eppure per più aspetti la faccenda funziona, anche in senso direttamente espressivo […]. (Ma quei carri, quei fondali d’alluminio, quei chilometri di merletti fatti a mano: quanto saranno costati?)
Fedele d’Amico
«L’Espresso»
25 dicembre 1977