Turandot

Musica:   Giacomo Puccini
Duetto e scena finale completati da :   Franco Alfano

Personaggi - Interpreti:
La principessa Turandot (I cast) - Luana De Vol
La principessa Turandot (II cast) - Giovanna Casolla
Il principe ignoto (Calaf), figlio di Timur (I cast) - José Cura
Il principe ignoto (Calaf), figlio di Timur (II cast) - Frank Porretta
Il principe ignoto (Calaf), figlio di Timur (II cast) - Nicola Martinucci
Liù, giovane schiava (I cast) - Carmen Giannattasio
Liù, giovane schiava (II cast) - Angela Marambio
Timur, re tartaro spodestato (I cast) - Askar Abdrazakov
Il principe ignoto (Calaf), figlio di Timur (II cast) - Carlo Cigni
L'imperatore Altoum - Antonello Ceron
Ping, gran cancelliere - Giorgio Caoduro
Pang, gran cancelliere - Giacomo Patti
Pong, gran cuciniere - Gianluca Floris
Un mandarino - Paolo Maria Orecchia
Il principe di Persia - Gualberto Silvestri
Il principe di Persia (II cast) - Sabino Gaita
Prima ancella (I cast) - Nicoletta Baù
Prima ancella (II cast) - Manuela Giacomini
Seconda ancella (I cast) - Ivana Cravero
Seconda ancella (II cast) - Adele Magnelli

Maestro direttore e concertatore:   Lu Jia
Maestro del coro e del coro di voci bianche:   Claudio Marino Moretti

Luci:   Andrea Anfossi

Movimenti coreografici:   Alessio Maria Romano
Registi collaboratori:   Carmelo Rifici, Paola Rota


Allestimento:   Teatro Regio di Torino


Prima rappresentazione
Teatro Regio, Torino
10 ottobre 2006

Foto / Bozzetti / Video

Le parole di Luca Ronconi


Avevo già da tempo assunto un impegno con il Regio. E con Margherita Palli avevo già preparato le scene e disegnato l’allestimento. Quando, lo scorso anno, s’è constatata la situazione di difficoltà finanziaria, m’hanno chiesto di firmare comunque la regia, rinunciando a tutto. (...) Se non si fosse trattato di Torino, forse avrei rifiutato. Ma per i rapporti che ho con questa città e con questo teatro, con il quale arrivo quest’anno alla decima produzione, m’è parso naturale dire di sì, anche se il progetto non è più quello iniziale. Il punto non è in sé e per sé il budget ridotto all’osso dai tagli statali (...), ma trasformare una difficoltà in una opportunità. (...) Non so se avrei accettato se l’opera fosse stata un’altra, anziché Turandot, che è un’incompiuta. Ma Puccini non la terminò mai. È questo, in fondo, che m’ha fatto riflettere e alla fine mi ha convinto. È culturalmente legittimo proporre uno spettacolo incompiuto indicando una via, un percorso lungo il quale esso avrebbe potuto essere completato. Perché nessuno può dire come sarebbe potuta essere Turandot se Puccini l’avesse effettivamente conclusa.
Intervista di Giovanna Favra
«La Stampa»
20 settembre 2006

Rassegna Stampa


Il Regio di Torino ha aperto la stagione con una Turandot ‘senza scene e senza costumi’. Almeno così si è detto. Ma in realtà i protagonisti sono in frac, le signore in abito da sera, il popolo in divisa. Non sono costumi? Quanto alle scene Luca Ronconi utilizza, e benissimo, tutti i ponti mobili dell’attrezzatissimo palcoscenico torinese in un continuo spettacolare saliscendi di coro, con macchine, gabbie e un centinaio di sedie rosse. Non è scena? Avrà risparmiato un bel po’ di soldi ma l’allestimento c’è. Anche se è il contrario di quel che uno si aspetta da un’opera piena di colori come Turandot. E che potrebbe essere anche piena di movimenti, qui troncati sul nascere per dare spazio al teatro che racconta se stesso.
Michelangelo Zurletti
«La Repubblica»
16 ottobre 2006
Ronconi fa scaturire lo spettacolo dal nudo, insuperabile fascino del palcoscenico d’opera. Ponti mobili, carrelli, elevatori, tapis-roulants. Ma non come effetti sbalorditivi, bensì come riferimenti di culto e di memoria per fissare i momenti drammaturgici. L’opera è indagata a fondo, non c’è nulla di non essenziale, i costumi stessi sono sommari, come scelti da un bagaglio utile per le prove. Ma poco a poco la radiografia dell’opera diventa un linguaggio d’immagini, meravigliose per quello che rivelano, stagliate in uno spazio vuoto senza misura. I gesti sobri disegnano ritratti: il principe assorto nel suo destino di vincitore, i tre svagati ministri stanchi del loro compito di giustizieri, la schiava fedele abituata alla sottomissione che insegna a tutti che cos’è l’amore, in quel mondo arido e cattivo.
[...] Il regista vince superbamente anche la disagevole sfida del finale non di Puccini, dove il musicista Alfano senza volerlo trasforma il lieto fine in pagine di kitsch e porta la principessa crudele dall’odio all’amore. Sulla partitura, c’è un gran bacio e la conversione arriva per vie ormonali, rapidissima. In scena, invece, abbiamo vissuto il travaglio psicologico di lei che conquista, prima controvoglia poi in alternativa drammatica, una sua prima, complessa femminilità. Non trionfalismo, ma accettazione d’una verità scoperta dentro a sé: fino all’ultimo acuto. Atto d’amore per le speranze lontane di Puccini, atto di fede nel teatro che, messo a nudo, può suggerire umane verità.
Lorenzo Arruga
«Il Giornale»
15 ottobre 2006
Seppur in grado di confezionare una stagione più ricca delle precedenti, il Regio di Torino si accoda alle proteste di tutti per i tagli alla cultura della Finanziaria 2005. E lo fa in modo originale. Inaugura cioè la stagione annunciando una Turandot ‘nuda’, priva di scene e costumi. La cosa singolare è che ne affida la messinscena a Luca Ronconi, proprio il regista che in passato di allestimenti costosissimi ne ha firmati a decine. Ma il risultato è quanto mai lusinghiero. Ronconi ha lavorato tante volte al Regio e di quel teatro conosce ogni segreto. Riesce perciò a utilizzare l’attrezzeria di palcoscenico in modo da creare gli spazi che occorrono. (...) Detta inoltre una recitazione statica, ieratica, come avesse a che fare con una storia vissuta da icone anziché da uomini in carne e ossa. Ne vien fuori uno spettacolo godibilissimo, la cui astratta strategia narrativa funziona per quanto di fiabesco c’è in questa drammaturgia e che se mai ha un limite, lo rivela appunto non appena la fiaba lascia spazio al melodramma.
Enrico Girardi
«Corriere della Sera»
22 ottobre 2006
Ronconi frantuma subito ogni incrostazione di esotismo, di algide pacchianerie o anche di realismo magico alla Gozzi, e punta fin dall’inizio – con ammirevole coerenza, difficile da ottenere in un’opera ‘aperta’ quant’altre mai – al nucleo duro e oscuro dell’opera, alla materia violentemente sessuale da cui prende le mosse ed è permeata. Senza peraltro mai abbandonare il registro alto, quasi ieratico, che pone la vicenda in un luogo atemporale assai vicino a noi. Il primo atto è quasi un pezzo di cinema, con il popolo di Pechino che svuota e riempie il fotogramma a ondate, mentre anche le emozioni si accavallano, alla ferocia segue la pietà, lo sdegno, l’oblio. Per contrasto, il secondo atto è raggelato e improvvisamente astratto, mentre nel terzo ci sono forse le idee più belle e inquietanti, a partire dal ‘Nessun dorma’ cantato in una platea di sedie vuote come tra una folla di spiriti inquieti.
Isabella Maria
«Il giornale della musica»
21 ottobre 2006
Ci vuole una discreta mano per trasformare centoventi seggioline rosse della sala prove del coro in quinta verticale: a scacchiera, nel finale, facevano da tribunale vuoto dell’ingiustizia, Liù suicida di fronte a quel muro di omertà. Il gesto melodrammatico prendeva eco politica. Ma anche nel primo atto l’ennesimo condannato a morte dalla perfida Turandot evocava – scheletrico, una tela ai fianchi, luce alla Caravaggio – le vittime odierne dei regimi dittatoriali. La regia diventava lettura antidecorativa, cruda, disincantata. Un filo ironica nel riscatto della Principessa odiosa, quando finalmente scende dal montacarichi. Ma umanissima quando si avvicina alla rivale morta, e con gesto antico si copre il capo.
Carla Moreni
«Il Sole 24 Ore»
23 ottobre 2006
Non importa che non si vedano le mura della Città Violetta, il loggiato, i pali che reggono i teschi dei giustiziati e, nel fondo, l’immagine a perdita d’occhio di Pechino nella luce del tramonto. Importa il senso dello spazio, vasto, monumentale, smisurato, in cui i librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni vollero ambientare la rielaborazione della settecentesca ‘fiaba scenica’ di Carlo Gozzi. Anche l’esecuzione musicale sembra in accordo con ciò che si vede: il direttore Lu-Jia, cinese di formazione tedesca, ha fatto, come si prevedeva, un ottimo lavoro, confermandosi una bacchetta tra le più dotate nella generazione dei quarantenni.
Paolo Gallarati
«La Stampa»
11 ottobre 2006