Die Bachken (Le Baccanti)

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Le parole di Luca Ronconi


Quando mi sono trovato a Vienna, impegnato nelle prove delle "Baccanti", la prima domanda che mi sono fatto è stata dove mai avrei messo il coro, composto da donne invasate da Bacco. E poiché mi trovavo in un teatro all’italiana, la collocazione del coro poteva avvenire o in platea, in mezzo al pubblico, o sul palcoscenico. La scelta della platea sarebbe subito apparsa una civetteria in quella realtà teatrale. Da lì la decisione di puntare tutto sul palcoscenico, anzi sulla non pertinenza del palcoscenico ottocentesco come contenitore della tragedia greca. Le "Baccanti" del Burg erano uno strano oggetto: potevano risultare, allo stesso tempo, la rappresentazione fedele del testo di Euripide e qualche cosa di ipotetico che continuamente si sovrapponeva e che con le "Baccanti" non aveva nulla a che fare. L’idea era quella di partire dal mito dionisiaco, come poteva presentarsi a Euripide in un’epoca in cui stavano nascendo dei nuovi riti, i misteri di Cibele. In questa situazione, Dioniso rappresentava l’uomo di un’altra realtà, quella del teatro. Anzi era il dio stesso del teatro. E se le Baccanti di Euripide potevano rappresentare una riflessione sul cammino percorso dalla leggenda, era altrettanto importante cercare di ricostruire come quel mito fosse arrivato fino a noi, attraverso il Rinascimento, che, negando il Medioevo, ricercava le sue radici in una civilizzazione greca deformata dai secoli e interamente ricomposta. Così lo spettacolo non puntava – come l’ "Orestea" dell’anno prima – sulla metamorfosi di un mito, ma sull’evoluzione e sulla permanenza di una tradizione, quella del teatro, di cui mostrare il funzionamento nella convenzione della scena all’italiana. Come se il viaggio nel tempo immaginario dell’ "Orestea" fosse diventato qui un viaggio nel tempo storico in cui il luogo e la tradizione del luogo nel quale mi trovavo – il palcoscenico – erano talmente importanti da identificare l’evoluzione del mito con le sue trasformazioni. Per questo le scenografie di Pier Luigi Pizzi erano pensate come dei piani che giravano su sé stessi, grazie alle scene che scivolavano su ruote, e dove i sipari dai fili visibili, che si aprivano o chiudevano, potevano mostrare o nascondere gli oggetti di teatro, spezzando e moltiplicando lo spazio. I rapporti di forza erano rappre- 8 sentati dall’opposizione di architetture diverse. Così la Tebe nella quale si svolgeva l’azione era una serie di Tebi molto riconoscibili. Gli attori venivano quasi gettati dentro la scenografia, che era importantissima: non come ambientazione dell’azione, ma come memoria di tutte le anticipazioni successive. Al centro di queste "Baccanti" c’erano due esigenze: da una parte identificare Dioniso come la divinità tragica; dall’altra cercare di ricostruire come il suo mito è arrivato fino a noi attraverso il Rinascimento. C’erano dunque tante Tebi come ricostruzioni possibili di teatri: da quello greco a quello ottocentesco, fino a una vera e propria scenografia neoclassica alla maniera di Savinio o di De Chirico. Poi, come le Menadi e i Tebani, come Dioniso e Penteo, le costruzioni si fondevano per lasciare il palcoscenico vuoto: un presente che evocava la morte. Quello che in questo spettacolo non c’era (e che ci sarà invece nelle "Baccanti" di Prato) era la storia di una trasformazione interiore. Qui tutto era esteriore, come indossare un costume di teatro. Gli attori erano riusciti a mediare benissimo tra quello che io chiedevo e la loro tradizione. Anzi per me il fascino della rappresentazione stava proprio nel dissidio tra questi due momenti: era del tutto progettuale lo scarto tra questo incombere di segni visivi e l’estraneità degli attori. A infastidirsi fu solamente chi non riusciva a leggere la rappresentazione come progettuale. Il senso fortissimo di teatralità di questo spettacolo nasceva anche dal fatto che ogni mutamento scenografico era come inquadrato, incorniciato da un boccascena a forma di maschera, concettualmente in tutto e per tutto simile a una voragine, dalla quale apparire e nella quale sparire. Quando Penteo guidato da Dioniso, travestito da donna, andava a spiare le Baccanti, spariva dentro il boccascena, da dove appariva un attore – Joachim Bissmeier – che nel ruolo del messaggero raccontava lo sbranamento di Penteo come la perdita della memoria di una cosa che poteva essere distantissima o immaginaria. Non il racconto di qualcosa che era successo, ma il suo tentativo di ricomporre i pezzi sparsi di un insieme mitologico al quale si contrapponeva il successivo arrivo di Agave, la regina, con le membra straziate del corpo del figlio.
«Luca Ronconi. Prove di autobiografia»
a cura di Giovanni Agosti (Feltrinelli, 2019), pp. 229-232