L'aquila bambina

Autore:   Antonio Syxty

Scene:   Carmelo Giammello
Costumi:   Carlo Diappi

Personaggi - Interpreti:



Prima rappresentazione
Teatro dell'Elfo, Milano
22 settembre 1992

Foto / Bozzetti / Video

Le parole di Luca Ronconi


Faccio parte della giuria del Premio Riccione, sono regista di professione e per di più mi occupo della programmazione artistica dello Stabile di Torino. Non vedo che cosa ci sia di strano nel mio interesse per una novità teatrale. Il testo di Syxty è stato uno dei migliori selezionati e proprio come regista sono stato mosso da una precisa curiosità: volevo vedere se ero capace di allestirlo, per scoprire cosa mi aveva interessato come giurato. Se ero stato più attratto dal linguaggio così volutamente antiletterario, evasivo, oppure dal contenuto scabroso, o invece dalla totale assenza di realismo. La mia scelta è stata provocatoria, ma la provocazione non sta comunque nell'esibizione dell'oscenità.
Lei non è un frequentatore di autori viventi. Com'è andata con Syxty? E' stato fedele al testo?
Ho fatto solo qualche taglio. Ma voglio precisare che io metto in scena un'opera e non un autore, dunque mi pongo in relazione con il testo e non con chi l'ha scritto. Comunque il mio rapporto con Syxty è stato piacevole. Quello con la sua opera è stato attento e affettuoso.
Le piacerebbe che qualche drammaturgo scrivesse per lei?
Non consiglio a nessuno di scrivere per il mio teatro 'utopistico'. Sarebbe una cattiveria
Intervista di Emilia Costantini
«Corriere della Sera»
1 ottobre 1992

Rassegna Stampa

dal Patalogo 15 (Ubulibri, Milano, 1992)

per gentile concessione dell'Associazione Ubu per Franco Quadri

 


Al premio Riccione '91 L'aquila bambina divise la giuria, o meglio suscitò in un suo membro-guida una crisi d'incompatibilità morale per cui il maggior riconoscimento dovette venire dirottato in altra direzione. Ma sempre a Riccione, nella Commissione per il Premio di Produzione, non sarebbe sfuggita al testo l'unanimità; né a Roma più tardi, in sede Eti, l'inclusione nella stretta rosa di novità da far tradurre e quindi promuovere all'estero; né ora, su un binario celere, la messinscena coprodotta da due organismi pubblici con la firma di un regista illustre, componente di quella discorde giuria, ma solitamente refrattario a dirigere opere di contemporanei viventi. Se si aggiunge che l'autore è sotto i trentacinque, il caso investe il costume teatrale. E perdipiù riesce insolito rispetto alla nuova produzione media il taglio astratto di crudo teorema sessuale da lui usato per affrontare un problema familiare. Forse si potrebbero rintracciare delle ascendenze - o influenze di studio nel percorso pratico del Syxty regista, che passa attraverso la classicità incestuosa e i banchetti di carne casalinga di Tieste, e presenta con scientifica neutralità Pasolini e Testori. Forse, invertendo le premesse di Seneca, si tratta di padri da divorare, mentre in questo testo viene adottato come maestro Bataille per filtrare una propria constatazione dell'esistente; o magari per impaginare un possibile problema esistenziale: contemporaneo, o da accreditare a una mitologia contemporanea?
Introduzione di Franco Quadri
"L'aquila bambina" di Antonio Syxty, 1992
La verità è che ad alcuni il copione di L'aquila bambina era piaciuto, ad altri (me compreso) molto meno o per niente; ma la sua pornografia o semipornografia giocò a suo favore assai più che a suo sfavore, e parve ad alcuni (me compreso) la sua principale attrattiva. Ascoltato e riletto, il testo mi ha fatto un'impressione ancora più negativa. La sua totale inerzia formale, la sua afonia espressiva, il suo sistematico ricorso a un linguaggio fumettistico o basso-televisivo con imbarazzanti intarsi di verismi kitsch saranno anche intenzionali e 'virgolettati', avranno anche - come dicono i suoi estimatori - una valenza 'rituale' o 'liturgica'; ma non per questo riescono a produrre - almeno su di me - il minimo stimolo intellettuale o emotivo; e se potessi correggere unilateralmente la relazione a suo tempo sottoscritta, mi verrebbe voglia di dire che il testo sfiora, oltre e più che la pornografia, l'insussistenza estetica.
Giovanni Raboni
«Corriere della Sera»
25 settembre 1992
Come mai Ronconi ha scelto di mettere in scena questo testo? Ronconi, il maestro, un mito per tutti quelli che amano il teatro, che mi spiega cosa ho voluto dire e mi fa notare cose che non avevo visto. E' un po' come andare dallo psicoanalista.
Dichiarazioni di Antonio Syxty raccolte da Daria Bignardi
«Panorama»
26 luglio 1992
L'aquila bambina è un testo di spiriti e riferimenti molto contemporanei ma ha l'impianto della tragedia greca. Rappresentarlo è una sfida, ma tutto quello che faccio lo è.
Dichiarazioni di Luca Ronconi raccolte da Daria Bignardi
«Panorama»
26 luglio 1992
Luca Ronconi ha fatto con la sua regia i più audaci volteggi al trapezio e su una rete (il testo) piena di buchi (in tutti i sensi). Umanamente e registicamente non si poteva fare di più per un testo e per dimostrare la propria bravura. Ci si può chiedere se di tanto esercizio valesse la pena. Più che citare Balthus e le sue bambinacce che si tiran su le gonne a visionarsi il 'nido' o L'impero dei sensi di Oshima con brindisi di sangue mestruale, Ronconi ha raggelato e straniato. Al punto che quando le due fanciulle si assaggiano le mestruazioni e imbrattano di sangue a piene mani le pareti assurgono davvero a vestali di tragedia che sacrificano agli dei; e quando una delle due muore per un misterioso colpo di pistola, il muro s'inonda di sangue con un'immagine degna dell'uccisione di Agamennone.
Rita Cirio
«L'Espresso»
11 ottobre 1992
Io scrivo un teatro che guarda al mito, fuori dal minimalismo realistico degli autori della mia generazione. I miei modelli sono vissuti quasi tutti nel passato: Seneca, Pasolini, Cechov e Pinter. Anche l'erotismo può essere mitico: si desidera con la testa, non con il corpo.
Dichiarazioni di Antonio Syxty raccolte da Maria Grazia Gregori
«L'Unità»
18 settembre 1992
La geometria inseguita dalla meccanicità di un linguaggio che cerca l'iterazione, si rifugia nella formula, si mimetizza nell'asetticità della combinazione prevedibile; e nel rituale della tentazione, nella comodità dell'associazione, nella trappola del sentimento. Tocca alle parole l'ardua funzione di collante tra i due triangoli, sovrapposti in un ciclo che esige la sua vittima con la puntualità di un giallo; e nel nome della parola si ricorre, aldilà della comunicazione diretta, anche alla registrazione e alla scrittura: tecniche della memoria, ma anche veicoli di un distacco straniante, strumenti d'intellettualizzazione. O mezzi di lavoro? Felix, il padre conteso e concupiscente, è un professionista delle parole, e di queste quindi si potrebbe anche servire soggettivamente per snodarci sotto gli occhi una sua invenzione. Ma non è uno scrittore, non possiede la creatività del Bataille che s'ingegna a imitare, mentre nei suoi resoconti cita Sade con l'aria di vantare una griffe. Felix è un giornalista e, per quanto in termini di maniera ce lo si voglia far credere una grande firma, si limita a descrivere: peraltro il caso vero prospettato potrebbe essere stato da lui ricostruito, come tipizzazione di una serie di casi. Comunque in qualche modo Felix documenta. Anche il linguaggio, rispetto all'esterno, come i personaggi all'interno della storia, è riprodotto; può appiattirsi con ironia fino all'inclinazione verso il fumetto, parodiare le sdolcinature scontate dei doppiaggi, gonfiarsi per la fiducia che il protagonista vi riversa con padronanza insistentemente esibita, applicare codici abusati di eccitazione per mimare il sesso che adombra e a cui intende introdurre.
Introduzione di Franco Quadri
"L'aquila bambina" di Antonio Syxty, 1992
Syxty ambisce a una sorta di onnivalenza espressiva e simbolica, usa il mito (il segno del rapace che dà il titolo) per toccare il limbo distaccato dei classici. Ma le sue geometrie sono sospette, frutto di incollature e di ripostigli. Strano che Ronconi vi abbia ravvisato una nitidezza gelata o forse il regista è stato attratto più dalla turbolenza combinatoria della commedia familiare, dalle sue rispondenze di patchwork. Fatto sta che lo spettacolo respira comunque in un grande ordine spaziale, impaginato in orizzontale nella fuga di porte studiate con Carmelo Giammello o bagnato di colori negli interni tagliati dai soliti pannelli.
Sergio Colomba
«Il Resto del Carlino»
24 settembre 1992
Tutta questa mobilitazione fuori dell'ordinario aveva un senso? Indipendentemente dal valore del dramma di Syxty, la risposta è decisamente positiva. E' evidente che organismi e teatranti debbono compromettersi, rischiare più spesso, se si vuole che il nostro teatro esca dalla rendita di posizione dei Goldoni e dei Pirandello e sperimenti un drammaturgia diversa, nuova, non importa se rischiosa. Quella di cui Syxty si serve in L'aquila bambina rischiosa lo è la sua parte. Ma più per la metafora letteraria di cui si serve, quella dell'erotismo, che non per la precarietà della situazione drammatica.
Mauro Manciotti
«Il Secolo XIX»
24 settembre 1992
In verità, come molti altri spettacoli ronconiani. L'aquila bambina di Antonio Syxty non merita alcun ausilio da parte di noi contribuenti (lo spettacolo è prodotto dallo Stabile di Torino e da Emilia Romagna Teatro) èva segnalato come particolarmente delittuoso: di quelli che allontanano dal teatro, che rendono detestabile ciò che è già di per sé poco amato. Immagino che dalla parte della critica ci sarà indulgenza e molto rispetto. Qualche spettatore abboccherà. Ma si troverà di fronte a un oceano di noia. Nell’Aquila bambina non vi è umanità, un briciolo di sentimento, un attimo di illuminazione; non vi è neppure la semplice comprensibilità, la modesta, quieta luce dell'intelletto. L'autore del testo, Antonio Syxty, anche lui folgorato dalla buona ventura (l'essere stato prescelto dal regista Ronconi) si dichiara entusiasta dell'esperienza; ma il risultato non è entusiasmante per noi e, a conti fatti, non è proficuo neppure per Syxty. Gli consiglio sinceramente di tornarsene nel suo teatrino, l'Out-Off, e di mettere i suoi testi in scena da sé, come faceva prima.
Franco Cordelli
«L'Indipendente»
24 settembre 1992
Il dramma di Syxty è la trascrizione in termini essenziali di un delirio omoerotico e claustrofobico che la fa assomigliare a un bunker dei sentimenti rimossi e delle pulsioni oscurate. Un ricordo di Pasolini, un richiamo a Bataille, qualche strizzata d'occhio al fumetto non tolgono a questo testo una singolarità e nitidezza di linguaggio che fanno da contrappeso al martellamento, a volte eccessivo, su una ossessione monotematica. Ma ci pensa la regia di Ronconi a decantare e, per così dire, a ibernare l'incandescenza della materia. Sul registro di uno straniamento ironico e trasformando il dialogo in una sorta di partitura atonale nella quale dominano gli stiranti e le scheggiature, Ronconi ha dato al testo una cifra di geometriche allucinazioni, al centro della quale spicca la perfetta interpretazione, prodigiosamente sospesa fra trepida innocenza e determinata malizia, che Valeria Milillo dà di Rosa, mentre Massimo Popolizio si divide sagacemente tra l'orgogliosa goffaggine e la disarmata disponibilità del padre. Completava il terzetto Almerica Schiavo nella parte dell'ambigua Helix.
Renzo Tian
«Il Messaggero»
24 settembre 1992
Ne è derivato uno spettacolo elegante, impegnativo, perlopiù anche piuttosto avaro nell'offrire appigli alla partecipazione dello spettatore, che ha nettamente e percepibilmente diviso il pubblico in due schieramenti: da un lato quelli che si son lasciati prendere dal fascino di una novità comunque non banale, che cerca strade insolite e difficili per arrivare a un linguaggio che aspira a essere 'attuale' senza passare per l'angusto sentiero della cronaca e dell'aneddotica; dall'altro quelli - e mi son parsi la maggioranza, a tratti ansiosa di guadagnare le uscite - che, aldilà di una evidente staticità dell'azione, parevano soprattutto soffrire le pur presenti ed evidenti discontinuità tra l'altezza delle ambizioni espressive e la convenzionalità di un linguaggio che mischia sesso e feuilleton, che tra feticismo, voyeurismo, omofilia, esibizionismo verbale e degustazione di vari liquidi corporei, sfiora a volte la parodia del porno-soft, lo sfinimento liberty, la logorroica pretenziosità della letteratura erotica di maniera. Personalmente, per quel che vale, mi sentirei comprensivo verso entrambe le posizioni, col sospetto che se autore e regista fossero stati la stessa persona lo spettacolo non sarebbe forse risultato altrettanto limpido stilisticamente, ma avrebbe probabilmente denunciato meno squilibri tra intenzioni e risultato".
Renato Palazzi
«Il Sole 24 Ore»
24 settembre 1992
Ho sempre pensato che Ronconi fosse, oltre che un grande regista, un drammaturgo nel senso della conoscenza della parola sulla scena, della parola scritta per essere 'detta', e nel caso specifico del lavoro fatto a tavolino sulla mia pièce ne ho avuto la fondamentale conferma. E dico fondamentale perché oggi è necessario, io penso, avere questa padronanza e conoscenza drammaturgica quando si fa il teatro di parola e soprattutto quello contemporaneo, altrimenti si rischia di fare dei puri 'allestimenti'di commedie. In questo lavoro a tavolino ho avuto per la prima volta la possibilità, in veste di autore, di fare un serio lavoro drammaturgico su un mio copione con l'aiuto di un grande regista, che si è messo a tavolino con il più serio rispetto di quelle parole che avevo scritto ed ogni modifica richiesta (e a onor del vero sono state molto poche) avveniva nella più totale collaborazione in funzione di quella che poteva essere la visione intuita dal regista in pieno accordo con la visione già 'vissuta' - solo attraverso le parole - dall'autore. In tutta sincerità non ho mai avvertito, per un solo istante in Ronconi un pensiero che non tenesse conto anche del mio pensiero come autore, e questa credo proprio che sia cosa veramente rara. In un momento nel quale si fa presto a parlare di giovane drammaturgia italiana, avendo una relativa coscienza di quello che è il reale lavoro di trascrizione sulla scena dì un copione mai rappresentato, tenendo conto del modo in cui è scritta la pièce (struttura, linguaggio, caratteri drammaturgici). E posso dire che nella fattispecie, ogni scena, ogni battuta, ogni parola, anche le didascalie stesse, hanno subito questo lavoro di 'conoscenza'a tavolino attraverso la costante prova degli attori, i quali a loro volta hanno lavorato con lo stesso spirito.
Antonio Syxty
«Spettacoli a Milano»
Settembre 1992
Costruito in un rapido concatenamento di scene (lo spettacolo dura due ore scarse) L'aquila bambina nel quale si possono riconoscere le più svariate influenze e gli amori dichiarati di Antonio Syxty, autore e regista poco più che trentenne, dai Greci a Pasolini, da Bataille a Sade, dai fumetti ai gialli, inizia - chi l'avrebbe mai detto? - con un omaggio a Cechov. Si gioca, infatti, a mosca cieca mentre ci si rincorre fra le statue di quell'albergo deserto, per cercarsi e per riconoscersi. E la mosca cieca visualizza subito, grazie alla coinvolgente regia di Ronconi, il suo carattere di gioco trasgressivo e rituale insieme, infantile e crudele, spinto al raggiungimento di un piacere che sembra sempre più una chimera. Piacere che il padre attinge soprattutto attraverso le parole e le due ragazze attraverso una fisicità che si traveste di simboli, non ultima la giovane aquila che dà il titolo al testo, immagine di libertà e di rapacità.
Maria Grazia Gregori
«L'Unità»
24 settembre 1992
Le due ragazze sono avvolte in camicioni da educanda. Ogni tanto, quando la situazione lo richiede, si scoprono fugacemente il seno senza spogliarsi di più. La loro carica erotica è spezzata dalle continue interruzioni del flusso dell'azione. I corpi sono pretesti per dare spazio alle parole della fantasia erotica, la vicenda è sacrificata alla sequenza, questa alla battuta, e questa ancora alla singola intonazione e gesto. Ne viene una sorta di ingrandimento, un effetto strutturale da buco della serratura, in cui Ronconi mi sembra aver genialmente dimostrato la differenza - non di grado, ma di natura - che corre tra erotismo e pornografia: il primo è il fascino libero e vitale dei corpi che si conoscono senza analizzarsi, il secondo è la dissezione, l'anatomia, la fissazione maniacale, un feticismo più o meno restrittivo ma sempre fissato su particolari e bisognoso di fissare il processo in cerimonia. Questa rivelazione - per cui pornografico non è solo il sesso, ma buona parte dei modi espressivi dei mass media di oggi - è il contenuto positivo di questa messinscena. Arrivarci con tanta concretezza non dev'essere stato semplice ner il regista, ma anche per Popolizio, Milillo e Schiavo, che fanno un lavoro accuratissimo contro natura.
Ugo Volli
«La Repubblica»
24 settembre 1992