Nella «Tragedia del vendicatore» la saggezza umana si riduceva all’osso, allo scheletro: tutto il resto era lussuria o avidità soffocante. Uomo o donna, la sostanza non cambiava. Il disprezzo ammetteva la deformazione grottesca e il dileggio, pur riconoscendo la follia dei personaggi che lo ispiravano. In scena c’erano solo attrici: da Edmonda Aldini a Ottavia Piccolo, da Mariangela Melato a mia cugina, Maria Teresa Albani. L’idea non era tanto quella di rappresentare questo testo del teatro elisabettiano come un campionario di situazioni truculente, ma, piuttosto, di sottolineare l’ambiguità di una violenza tolta dal suo momento storico ed elevata quasi a esemplificazione della violenza più nichilista, vista sia sotto forma di vendetta che di prevaricazione.
L’ambiguità nasceva anche dal fatto che, tra un incesto e l’altro, tra uno stupro e l’altro, tra banchetti, ricevimenti e figli illegittimi, tutti i ruoli fossero interpretati da donne, al contrario di quanto avveniva ai tempi di Tourneur, quando gli attori erano tutti uomini. I personaggi erano distinti dai loro nomi come da enormi etichette, come da grandi maschere, vistosamente simboliche nella loro elementarità. E le attrici, che interpretavano ruoli maschili, non nascondevano affatto di essere donne, anzi lo ostentavano, quasi nel caricare il loro sesso di tutte le scelleratezze. Un’ambiguità solo in seconda battuta sessuale e che si volle vedere come la misoginia di un uomo che non può fare a meno delle donne. Invece era un “doppio gioco”, che scatenava i personaggi tra pareti altissime e lisce (la scena era di Uberto Bertacca e riproduceva una sezione dell’interno del Pantheon), con finestrini in alto che si aprivano per fare passare i personaggi, richiudendosi subito alle loro spalle. Era una contaminazione che comportava un accrescimento aggressivo della deformazione, accentuata dal disegno dei ruoli e dallo sforzo costante di distogliere la recitazione dalle norme consuete, alla ricerca di un linguaggio inedito di eccessi non catalogabili, di una gamma di esasperazioni in cui dramma e sarcasmo si congiungevano, magari con venature ironiche.
«Luca Ronconi. Prove di autobiografia»
a cura di Giovanni Agosti (Feltrinelli, 2019), pp. 280-281