Per mia fortuna non sono molti gli spettacoli che non sono riuscito a fare. L’ultimo, in ordine di tempo, era stato pensato per l’Ansaldo di Milano, una grande fabbrica in disuso. Non aveva ancora un titolo preciso – si pensava a «Vigilia» – ma c’era già un canovaccio, un testo embrionale, ancora da rielaborare, di Carmela Cicinnati e Peter Exacoustos. La cosa curiosa di questo spettacolo è che era il risultato, in qualche modo, di due spettacoli precedenti che non avevo potuto mettere in scena.
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«Vigilia» è lo spettacolo dietro al quale corro e che spero di fare prima di morire perché sento che sarebbe proprio la summa del mio lavoro, il mio spettacolo ideale, nel quale il pubblico giocherebbe un ruolo fondamentale: fa parte della rappresentazione, ma, allo stesso tempo, gli si richiede uno sforzo di fantasia in grado di attivare tutte le sue facoltà percettive e immaginative. Il progetto per l’Ansaldo rifletteva benissimo tutto questo con il proliferare della vicenda nella simultaneità delle situazioni: una specie di smarrimento della contemporaneità in qualcosa di atemporale, in un’immagine di teatro continuamente proliferante.
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«Vigilia» ruota intorno a sette ragazzi, alle loro azioni simultanee che poi, a un certo punto, si riunificano: una specie disistole e di diastole. È la ricerca di qualcosa in un labirinto (un ambiente metropolitano) da parte di questi giovani che ricevono, ognuno dal proprio padre, una piccola missione: per esempio cercare qualcosa che è stato lasciato da un’altra parte. Il passaggio da una situazione all’altra era scandito dall’uscita del figlio dalla scena-contenitore (una stanza d’albergo; la camera singola di una clinica privata; una stanza di bambini; la cucina di un piccolo appartamento; il corridoio di una casa; una stanza con un letto matrimoniale; un bagno) verso una meta che conteneva al suo interno la possibilità dell’imprevisto e la deviazione verso una nuova meta, con nuovi compiti e riconoscimenti, per via di un incontro con un uomo malandato, anche se non vecchio, che li dirotta verso un’altra situazione.
Nel loro peregrinare c’erano dei momenti in cui i sette ragazzi si ritrovavano insieme, senza riconoscersi. Per esempio ai vari sportelli di un ufficio anagrafico, per richiedere il documento-testimonianza della propria nascita. Solo in un secondo momento, e progressivamente, i sette arrivavano a reincontrarsi e a riconoscersi. La spinta dalla quale partivamo non era né documentaria né sociologica, ma semplicemente voleva descrivere come le diverse strade potevano intersecarsi, incontrarsi. Da qui la tensione dei sette ragazzi verso la ricerca di una doppia paternità, familiare e politico- amministrativa, e il tentativo, attraverso smarrimenti e possibilità di orientamento autonome, di ritrovare unite queste due diverse forme di paternità.
Lo spettacolo era previsto per circa duemila persone, con il presupposto di mostrare delle scene che si svolgevano simultaneamente e altre che, invece, si svolgevano in luoghi diversi, suggerendo una divisione degli spettatori. Nel progetto di fattibilità che abbiamo sviluppato, però, la soluzione scelta, all’interno dell’enorme padiglione dell’Ansaldo, non fu né architettonica né scenografica, ma qualcosa che permetteva di seguire il tracciato drammaturgico.
Non mi interessava fare uno spettacolo itinerante a tutti i costi: la scrittura molto aritmetica del testo, infatti, non poteva accettare la casualità e gli spostamenti del pubblico potevano avvenire solo all’interno di una linea molto rigorosa di sviluppo dell’azione. Era quasi inevitabile che ci fossero sette luoghi con sette platee frammentate all’inizio, poi un luogo che vedeva raccolto tutto il pubblico e così via.
I materiali scenografici ce li doveva fornire il Comune di Milano ed erano tutto ciò che una metropoli dismette: vecchi tram, vecchi letti d’ospedale, banchi di scuola, arredi di que sture, di luoghi pubblici, oggetti pignorati e mai reclamati. Un insieme eterogeneo di elementi che avevano però il carattere comune di essere stati usati e che avrebbero costituito la base di un intervento riassuntivo scenografico che però partiva proprio da qui. La presenza della città derivava quindi da questi oggetti, non da una realtà urbanistica. Lo richiedeva il carattere del racconto, così simile a una favola orientale, che ruotava intorno allo smarrimento di qualche cosa, a una perdita anche di memoria o di senso della propria identità, del proprio passato, del da dove si viene. Ancora una volta uno spettacolo che derivava la sua linfa dallo sgomento e dalla perplessità: emozioni per me fondamentali in teatro.
«Luca Ronconi. Prove di autobiografia»
a cura di Giovanni Agosti (Feltrinelli, 2019), pp. 343-344, pp. 348-351 e pp. 353-358