dal Patalogo 11 (Ubulibri, Milano, 1988)
per gentile concessione dell'Associazione Ubu per Franco Quadri
Perché I dialoghi delle Carmelitane ? (...) Forse proprio la serie contraddittoria di stratificazioni del testo può aver stimolato l'interesse di un regista dalle scelte non prevedibili come Luca Ronconi, amante delle complessità strutturali e delle opere a molti personaggi ma solitamente refrattario agli autori contemporanei, oltre che lontano per formazione da una tematica religiosa.
Franco Quadri
«La Repubblica»
22 marzo 1988
Un 'tutto pieno' di accorte e splendide trovate che fa (quasi) dimenticare la non risolta e forse irrisolvibile domanda di fondo: che cosa - e perché, e per dire che cosa d'altro e di suo - ha spinto Ronconi verso questo testo?
Giovanni Raboni
«Corriere della Sera»
21 marzo 1988
È uno spettacolo calato serenamente nella severità claustrale, nell'essenzialità della purezza di chi vive dello spirito. Questo racconto di una drammatica vicenda umana, individuale e comunitaria, ma anche di un dono continuo di coraggio e di speranza e di consolazione; questa narrazione di una persecuzione che, come tutte le opere di violenza, è solo ripetizione di una lotta tra il bene e il male, ottiene da Ronconi una forma razionale di splendido rigore. L'impianto scenico scandisce, con le sue pareti e i suoi fondali a pannelli mobili, le ore di vita di un complesso ambientale conventuale, sviluppando il discorso ronconiano sull'occhio cinematografico dal quale traguardare la vicenda adottata dal teatro. Ma la originaria sollecitazione del cinema ha suggerito anche l'utilizzo del piano superiore della scena per una lunga serie di proiezioni tratte da celebri film da cineteca, rievocanti scene di violenza storica, passata e attuale. Nulla di oleografico: non c'è nemmeno il patibolo, che si deve immaginare di là da una porticina che le Carmelitane attraversano cantando la Salve Regina. Infine, quel buio si fa luce su un groviglio di corpi denudati. Non è una caduta di gusto, perché in effetti le suore subirono questa umiliazione. ' Et super vestem meam miserunt mortem'. E uno spettacolo tutto di commozione: ora letificante, ora struggente. A momenti sconvolgente, nella costante levità figurativa. Il vostro cronista non ha potuto - come del resto molti spettatori - resistervi con quel criticismo che può diventare cinismo. Le scene del voto al martirio e la processione alla morte sono rito, sono preghiera. E poi ecco le prestazioni individuali. Anzitutto indicheremo la sublime interpretazione che Franca Nuti ha dato della prima Priora; la drammatica, sgomenta, lacerata, rancorosa approssimazione alla morte è stata da lei resa con un pathos di tale profondità, di tale aderenza naturalistica, con tale tremenda icasticità rappresentativa, da porsi nel segno della massima conquista artistica. Il pubblico, turbato e commosso, l'ha ricambiata con un interminabile applauso. Seconda perla interpretativa quella di Marisa Fabbri che, nei panni della Seconda Priora, ha dato a quel carattere semplice, di creatuta 'mediocre', concreta, accenti mirabili per intensità e creatività, guizzi bellissimi di ruvida bontà, ottenendo a sua volta, alla sua intelligenza, ammirati consensi. Il personaggio di suor Bianca, ben difficile, è stato sostenuto con perfetta scuola e incisiva plasticità di gesti da Sabrina Capucci, che la contorta angoscia della giovane e nobile postulante ha modellato con progressiva sicurezza e spontaneità. Bravissima Paola Mannoni nel tratteggiare la fermezza e la consapevolezza sempre presenti in suor Maria dell'Incarnazione. Di spicco anche la suor Costanza di Gabriella Zamparini. Ma tutte le suore sono una meraviglia di naturalezza, di composta vivacità, di fragranza espressiva.
Odoardo Bertani
«Avvenire»
22 marzo 1988
Sul pensiero costante della morte, che alimenta ogni momento di una vita di meditazione, si sviluppano la pagine più alte di questo testo scritto da un morente. Le tre protagoniste, le due successive priore e la loro vice, incarnano, prima di tre caratteri, tre idee di come vivere la fede: la passione, l'orgoglio del sacrificio, la concretezza di una continua ricerca di conciliazione. Ma secondo la 'legge di Dio', il loro confronto trova una conclusione che ogni volta contraddice le attese: la madre santa muore in preda all'angoscia nel suo letto, l'esaltata per il martirio viene sottratta alla ghigliottina, la mediocre realista vi sale da santa. E la debole suor Bianca che era scappata arriva volontariamente al sacrificio. Fino alla fine brilla la dialettica interna di una comunità predestinata, un microcosmo dove coesistono le classi e le concezioni di vita: Ronconi cerca di sottrarlo ai facili schematismi e sembra leggervi una grande passione laica, nel senso che sottolinea i valori individuali delle persone, isolate ciascuna con se stessa, anche nello spazio fisico, come vuole il rispetto della regola, o delle regole, di Santa Teresa.
Non c'è in tutto questo alcun rifiuto della storia, da parte di Ronconi. Anzi, il regista trasporta le sue Carmelitane nel mezzo del nostro secolo, in una contemporaneità che i semplici abiti, vestiti dopo il forzato abbandono del velo, situano più o meno negli anni post bellici della creazione del dramma. Lo si intuisce fin dal bellissimo quadro iniziale che pone al centro della grande sala vuota una carrozza settecentesca quasi fosse un oggetto da museo, come da cineteca sono le immagini cinematografiche della folla in tumulto proiettate in alto e di lato, mentre da fuori incalzano i rumori del traffico. Altre proiezioni cinematografiche scandiscono a momenti lo spettacolo, e soprattutto nell'ultima parte, quando il mondo chiuso del convento viene bucato dalla storia, i dialoghi morali devono fare i conti con il dramma dell'azione, senza gran guadagno. E questa in effetti la più sorprendente novità offerta dalla messinscena, l'incontro inedito del regista con il mezzo cinematografico all'interno del lavoro teatrale. All'origine di questa scelta c'è forse l'iniziale destinazione del testo di Bernanos a copione per un film, ma più che il motivo filologico conta il grande risultato espressivo ottenuto da Ronconi, che ha attinto a vecchi documentari bellici come a film sulla Rivoluzione francese (dai primi anni Venti a Wajda) per formare una sorta di commento visivo fuori campo, uno sguardo televisivo rivolto all'attualità. Però degradando questa modernità multimediale, retrodatandola a livello delle avanguardie storiche, rallentando e moltiplicando le immagini e inserendo sfregi tricolori con un procedimento che cita insieme Abel Canee e i maestri del cinema sovietico. A sottolineare ancor più questa scelta c'è del resto il simbolico allontanarsi della realtà esterna al convento, spostata più in là, vista tramite un'altra rappresentazione, un altro film. L'esterno è un nebbioso spazio grigio con poche poltroncine da vecchio cinema, in contrasto con la solarità del chiostro. Luogo di incontro di una clandestinità che può adombrare, senza neppure forzare troppo, quella della resistenza partigiana. Resta naturalmente un filo di ambiguità, in quell'andare cantando al martirio, che tocca allo spettatore sciogliere. Dopo, lentamente. L'immagine che chiude lo spettacolo, l'ammasso dei corpi nudi delle donne uccise, che richiama la triste memoria dell'olocausto nel lager, non è di quelle che si possono dimenticare in fretta.
Gianni Manzella
«Il manifesto»
22 marzo 1988