Questa inesauribile tessitura di rapporti è riconducibile alla diversa dimensione del tempo che i personaggi vivono divisi in gruppi fin dall'inizio della pièce (e del flashback). Olga, Mascia e Irina si muovono lungo il divenire di un tempo soggettivo, ma differenziato al suo interno. Per Olga, infatti, il tempo è nostalgia; per Irina è fonte di velleitarie aspettative; per Mascia si consuma in un presente che si sbriciola mano a mano che la vita va. Per i militari, invece, il tempo è storico, è il segnale di una mancanza; le guerre non ci sono e essi sentono in quella guarnigione in cui si respira un clima da deserto dei tartari tutta la loro inutilità e provvisorietà. Allora un duello può rompere l'assurdo gioco dell'attesa e l'amore può essere un pretesto per trovarsi un avversario. A Soliònij, insomma, succede, in termini simbolici e poetici, la stessa cosa che al vecchio Ekdal in L'anitra selvatica che caccia conigli nella soffitta non potendo farlo, all'aperto, con le anitre. A fare da spartiacque tra un biologico segnato dai pasti, dai parti, dai tradimenti, dagli ingrossamenti; ed è proprio per segnalare la continuità ininterrotta di quest'ultimo tempo che il regista ha considerato come un tutto unico il primo e il secondo atto, dal bacio tra Andrièj e Natascia alla nascita, ormai avvenuta, del primo figlio. Queste diverse dimensioni del tempo sono spesso compresenti in palcoscenico dove il luogo della vicenda si struttura per accenni tra le pareti di casa ricoperte da carta da parati e i pochi oggetti simbolici, che vanno e che vengono, trasportati su rotaie mentre al di là di un sottile velario si intravede un ambiente a suggerire una ipotetica stanza di casa Prosòrov.
Maria Grazia Gregori
dal programma di sala
Aldilà di discussioni complesse su ruoli e trasformazioni nella società, questa trinità femminile di madre, figlia e corpo dello spirito mostra, dopo la dispersione nel tempo della memoria (e della ragione), segni inequivocabili di una drammatica 'separazione'. Quando, dopo la claustrofobica scena dell'incendio nel terzo atto, asserrragliate nella stanza che mai riescono ad avere 'tutta per sè' le tre donne assistono immobili, mute e al buio al cambio di scena, operato da figure maschili, macchinisti- militari, che coprono mobili e pareti di un artificiale autunno di foglie secche e luci sfiorite. Una 'natura morta' dove muoiono anche la speranze sociali di Olga, Mascia e Irina, una dopo l'altra. Ma proprio da quella raffica di sconfitte, loro possono di nuovo ritrovarsi, come un gruppo scultoreo infine molto 'realista', a gridare ancora, e con una forza nuova, le proprie aspettative di cambiamento, cercando di sovrastare con la voce (e non è detto ci riescano) le pompose e ottimiste note delle fanfare militari.
Gianfranco Capitta
«Il manifesto»
30 marzo 1989
È il rifiuto di ogni interpretazione premeditatamente ideologica o storica o stilistica finisce col tradursi nella più forte e suggestiva delle interpretazioni: quella che va aldisotto della superficie verbale per isolare le radici profonde della verbalità e tradurle in scarti, spasmi, anomalie del gioco fisiognomico e dei comportamenti vocali.
Giovanni Raboni
«Corriere della Sera»
30 marzo 1989
I giorni mangiano i giorni e si perde il senso delle distanze, salvo rendersene conto quando è tardi, sulla spinta di una catastrofe esterna, al terz'atto, punto focale delle confessioni di un generale fallimento, nella luce di un incendio. Prima la polifonia cechoviana delle azioni simultanee era stata cancellata insieme al prezioso intrecciarsi delle psicologie e alle famose atmosfere, a profitto di una più raggelante scala temporale: ed ecco il terzo atto, bellissimo, recuperare modi naturalistici per una sintesi emozionante di bilanci in perdita, chiusa dall'uscita degli arredi e dal mutarsi a vista della scena (realizzata su bozzetti di Margherita Palli) in un giardino di rosseggianti foglie di acero e betulla. Delle quattro stagioni significativamente immaginate per i quattro atti la sola rimasta è l'autunno, teatro della partenza della guarnigione e dell'impossibilità accettata dalle sorelle a trasferirsi nell'invocata Mosca. Le battute finali di rassegnazione sono gridate da loro come un'appendice dovuta, coperta dalla banda militare dei partenti, e svalutata dalla posposizione di uno dei tanti 'Che importa?' del vecchio dottore. Mestamente, con una gaiezza di circostanza, si chiude così il flashback, di cui peraltro si era persa la traccia nella seconda parte, quando il racconto aveva preso a fluire sull'onda tradizionale, superando il partito preso di inizio, con felicità narrativa e sottolineature ironiche, recuperando anche qualche citazione dei grandi recenti allestimenti del Teatro Katona di Budapest e di Peter Stein. Indimenticabili a dispetto delle loro premesse, i volti delle tre sorelle emergono da uno spettacolo all'altro, con un'identità destinata a completarsi progressivamente, già fissata da Cechov con la forza di una scrittura in apparenza indeterminata e policentrica. Ronconi avrebbe voluto isolare solo il primo e il terz'atto del testo per un confronto stilistico: lo spunto lascia qualche margine di discontinuità sullo spettacolo, un po' compresso nella scena del Teatro Comunale di Gubbio, ma a livello di altissimo saggio di recitazione. Non sarà facile dimenticare la grandezza delle tre non separabili protagoniste: il segno stilistico di Marisa Fabbri, sublime mediatrice della memoria, l'energia vitale di una travolgente Annamaria Guarnieri, l'eleganza sognante di Franca Nuti, superba salvo per qualche eccesso drammatico, accanto alla straordinaria presenza di Umberto Orsini, che impone un Verscinin inedito, umanamente struggente e condannato a far risuonare i suoi filosofemi nel vuoto.
Franco Quadri
«La Repubblica»
30 marzo 1989
Assecondato da un gruppo di attori di livelli eccezionale, Ronconi ha amorevolmente sottolineato le rispettive stupidità, e uno per uno ha redento i personaggi (proprio su questa linea mi è sembrata mirabile l'interpretazione di Umberto Orsini nel ruolo di Verscinin). La stupidità non è solo una condanna: è un dono, un miracolo, come il 'credo quia absurdum' dei mistici. Un ufficiale porta in dono una trottola, e tutta la tavolata dei membri della famiglia e degli ospiti si alza in piedi e osserva incantata il misterioso roteare del giocattolo, con la stessa espressione attonita del fanciullino che guarda la trottolina, il 'toton', nel celebre quadro di Chardin; e tutti sono coinvolti nella simpatia del commediografo e del regista per questo 'stupido' piacere.
Guido Almansi
«Panorama»
30 aprile 1989
Buon giorno, ero Irina: anche se impersonarla oggi da adulta, anzi da adultissima, mi sembra qualcosa di proibito, pericoloso. Un po' scandaloso, magari. Come fare i baffi alla Gioconda. Come se all'improvviso mi mettessi la molletta, le calze corte, entrassi in scena e esordissi: 'Caro diario, mi chiamo Anna Frank e ho tredici anni'. Perché così, a prima vista, Irina è un personaggio che appartiene alle Galatee Ranzi. Eppure, ho scoperto una cosa importantissima: che sarebbe stato un errore blu se l'avessi interpretato da ragazza. Perché non l'avrei certo capita a fondo e l'avrei fatta, come si dice, intensa: mentre bisogna saper entrare nella sua piccolezza, nella sua velleitarietà per riuscire a tirarne fuori un qualcosa di affettuoso.
Annamaria Guarnieri (Intervista di Donata Gianeri)
«Stampa Sera»
13 marzo 1989
Mascia è continuamente corrucciata, continuamente di malumore, e 'ritiene tutto il mondo responsabile dei suoi fallimenti', a soli ventìsei anni è una donna rassegnata, al dì fuori di rimpianti e dolori, perennemente sospesa in un presente in cui le realtà sono brevi, epidermiche, effimere: anche quando si commuove si tratta di una commozione concentratissima, che dura pochi istanti, perché 'il suo dolore è un dolore a cui si è assuefatta '. Appartiene a un mondo di pìccola gente che magari desidera la felicità, ma non muove un dito per conquistarsela. Basti dire che le tre sorelle, da sempre, nutrono un solo grandissimo desiderio: partire per Mosca. Hanno i soldi e le comodità per farlo; ma non comprano mai il biglietto. E non andranno mai a Mosca'.
Franca Nuti (Intervista di Donata Gianeri)
cit.
Devo dire che, prima d'ora, non ho mai amato Cechov e non capivo la tendenza del nostro secolo di andare a rimorchio di quest'autore e dei suoi derivati: la famosa storia dell'atmosfera, poi, mi ha sempre annoiato a morte. Evidentemente, non l'avevo compreso nel modo giusto perché ora mi sto divertendo un mondo e mi sembra che la metodologìa usata da Luca sia il massimo del concetto di ironia, nel senso di finzione, alla greca. Inoltre Ronconi ci sta dirigendo verso un tipo di recitazione che è come una partitura musicale. Viene da pensare a certi recitativi secchi delle grandi opere di Mozart, in cui una sillaba applicata a un quarto anziché a due quarti ha un suo valore preciso perché restituisce trasparenza ali 'intenzione. Non solo una commedia, dunque, ma una straordinaria armonia.
Marisa Fabbri (Intervista di Donata Gianeri)
cit.